ARTE COME FILOSOFIA, LA PITTURA COME SPECCHIO

di Amalia Caputo

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Là dove Es era, io debbo divenire.

Sigmund Freud

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Piccola introduzione

            Se solo l’invidia per la perfezione fosse vinta dall’amore per la perfezione, noi tutti non resteremmo muti ed astiosi davanti alla bellezza dei quadri di Piero della Francesca, ad esempio, ma sapremmo dire lo stupore, sapremmo – svelati gli occhi dalle lacrime – raccontare le emozioni (sarà d’antan la parola, ma è perfettamente appropriata)… “Sapremmo”, ma non sappiamo, perché non tutti noi siamo poeti. Non tutti, per fortuna. Perché poi c’è una risma di sognatori che, invece, si ostina a restare stupiti dalla leggerezza della perfezione, dalla poesia del processo che porta alla perfezione. La quale non è altro che la perfetta consapevolezza che è l’imperfetta tensione al perfetto, la perfezione.

            Uno di questi, uno di questi sognatori, che allo sguardo incantato sulla verità delle cose sta dedicando una vita, è Cerj Lalonde.

 

Arte come filosofia, la pittura come specchio

            Sin dai suoi primi esperimenti nel campo delle arti visive, apparivano evidenti i debiti di Cerj Lalonde con artisti come Frank Stella, Mondrian e Kandinsky. Campi geometrici ed un uso asciutto del colore, al servizio di tele dalle forti connotazioni concettuali, ma cui non era aliena l’urgenza espressiva della pittura gestuale. Non è un caso che, a proposito del suo lavoro, lo stesso Lalonde abbia rivelato: “Alcuni dei miei dipinti presentano una composizione formale molto forte ed ordinata affinché la sicurezza e la potenza dei limiti geometrici permettano completa libertà all’espressività della forma e del colore. E questa, più di ogni altra, è una capacità che la pittura, e solo la pittura riesce ad avere”.

            Infatti, Lalonde, sebbene attento sperimentatore che pure impiega una complessa partitura di media (splendide le installazioni multimediali degli anni ottanta, ad esempio, che citavano tanto il primitivismo alchemico di un Beuys quanto il “buco nero” dell’immagine elettronica di un Paik), resta soprattutto straordinario pittore. Non è ancora lui a rivendicare, con un aspro intervento sulle pagine del canadese Le Devoir, il disinteresse dei media nei confronti della pittura, a tutto vantaggio dell’arte “spettacolare”, reclamando il ruolo fondamentale della ricerca sul colore proprio per le sue caratteristiche “uniche ed essenziali per lo sviluppo dell’umano e del suo essere nel mondo”? Un intervento, questo, dove si faceva chiaro, tra l’altro, la fondamentale centralità del linguaggio filosofico nell’opera di Lalonde. Una delle prime analisi sistematiche del suo corpus artistico alla luce di un forte impianto speculativo, lo si deve a Joan Altabe, critico dell’Herald Tribune, che bene intuiva come il linguaggio artistico di Lalonde consista, sì sovente nell’essenzialità di poche linee, ma che le sue tele, attraverso una certa aria mistica che ricorda Rothko e Newman, reclamino soprattutto sempre uno sguardo “contemplativo”.

            Ma più di ogni altri, è stato il critico Leo Rosshandler ad individuare nella ricerca dell’artista canadese, un sistema filosofico coerente che, proprio per questo, esige dallo spettatore un’attenzione di tipo speculativo. E, meraviglia dell’arte più grande, senza nessun artificio o chiusura intellettualistica, ma proprio attraverso tele di splendida fattura formale e di squisita e leggera cromia. Ed allora, Rosshandler, pur collegando la sua ricerca in quella tradizione che dall’avanguardia russa giunge fino al postmoderno, assegnava un ruolo autonomo l’opera di Lalonde dove l’astrazione diventa collante tra lo sguardo profondo della psicologia ed un tono generale di intimità e misticità. Dicotomia insanabile? Niente affatto. Innanzitutto perché collante (e garante) di un testo non contraddittorio in Lalonde non è semplicemente l’opera, ma l’esperienza estetica ed etica che l’opera d’arte fornisce. Il gioco è sempre quello di indurre un “processo”, un processo cognitivo in cui gli astanti (l’artista e chi guarda, con le rispettive filosofie), hanno ruolo paritario. La riflessione intellettuale di Lalonde poggia su una costante dialettica: metodo classico e a-sistematicità postmoderna, calore della pittura e gelo dei new media, epistemologia e sentimento, ma, sempre, con una tematica centrale, l’ossessione del “Vedere” (“Seeing”) come “critica del giudizio”.

            Ma che dietro ciò che vediamo, non si celi la cosa in sé, ma giusto lo “sguardo” è uno dei paradossi cui la fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty (si pensi ai suoi numerosi scritti sulla pittura, tra i quali il fondamentale Il Dubbio di Cézanne) e di Jacques Lacan ci ha abituati.

            “Il rapporto tra lo sguardo e quello che si vuole vedere è ingannevole” (Lacan). Ma lo sguardo è proprio quel “processo sociale” che unisce attraverso il linguaggio tutti gli osservatori alla sfera del simbolico. Sguardo frustrato se è vero che “vedere” è sempre irrealizzabile “desiderio dell’altro”. E ancora Lacan, nel Seminario XI discuterà de Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty, definirà lo sguardo il “rovescio della rappresentazione”. Il suo “stile”? Lo specchio. (Davanti ai dipinti di Lalonde, ho sovente, la sensazione di essere dinnanzi alla pulizia misteriosa degli specchi: superfici lisce, l’epicentricità di un piano bidimensionale, la monocromia…).

            E’ Gilles Deleuze a parlare dello “stile” come esigenza fondamentale della filosofica. Ma l’arte anche è stile. Ergo, come Lalonde sa bene, l’esigenza fondamentale dell’arte è la filosofia.

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Vedere ed esser visti

            La pittura di Cerj Lalonde contrae il debito più evidente con le pratiche concettuali e spaziali del secolo appena terminato – quello straordinario corpus di opere e di intenti che abbraccia Barnet Newman fino a Frank Stella (soprattutto di Barnet Newman penso all’Achilles del 1952, o al più programmatico The Name del 1949 – entrambi alla National Gallery of Art di Washington D.C. – che con inchiostro e ruvide pennellate dichiarava l’inestinguibile coincidenza tra corpo e gesto del pittore con l’approccio filosofico rendendo abbastanza superflua, come altri hanno dimostrato, l’indicazione dell’assenza di “indicatori deittici” nella pittura occidentale proposta dal filosofo Norman Bryson). Ma è il Kasimir Malevitch di quel fondamentale olio di medie dimensioni che è Quadrato nero e quadrato rosso del 1915, ora al Museum of Modern Art di New York, a rappresentare una pietra fondante dell’immaginario dell’artista canadese. Ben prima che lo stesso Kandinsky emancipasse la sua opera da un senso d’inferiorità nei confronti della musica (“Improvvisazioni”, “Composizioni”… questi i nomi dei suoi lavori degli anni dieci), era stato proprio Malevitch a rivendicare una matrice ontologica, proprio attraverso l’approccio linguistico, della pittura (e nel titolo di quell’opera la coincidenza tra “parole” e contenuto è giusto programmatica).

            Nella storia della pittura occidentale uno degli eventi linguistici più importanti è stato senza dubbio l’invenzione della prospettiva.

            “La prospettiva rappresenta la consapevolezza dell’eternità del tempo e dell’infinità dello spazio”, ha scritto di recente Cerj Lalonde.

            La prospettiva classica, lungi dall’essere una “soluzione esatta”, “è soltanto uno dei modi che l’umanità ha inventato per proiettare il mondo percepito davanti a sé e non la copia di quel mondo” (Merleau-Ponty). Fallace, se l’intento è la coincidenza tra rappresentazione e rappresentato, ma comunque un metodo. E una griglia attraverso cui leggere il mondo. Perché è proprio nel limite del rappresentato la scoperta “dell’eternità e dell’infinità”.

            E, in quest’ottica, abiurate le tentazioni della “mymesis”, qual è il ruolo dell’artista? Quello di presentare semplicemente i limiti del mondo e degli uomini? Il suo non è altro che il sacerdozio del finito?

            “Parlare dell’identità dell’artista significa sostanzialmente confrontarsi con un mito”, afferma Lalonde che cita poi il Freud commentatore de I Fratelli Karamazov di Dostoievsky quando afferma che “il problema dell’artista non può essere analizzato”. Una prospettiva questa che non elude la consapevolezza di un ritorno a certe posizioni idealistiche. Di certo, in seguito, ricordando come Barnett Newman abbia detto che “il primo uomo è stato un artista”, a Lalonde sta maggiormente a cuore – più che una definizione ontologica attraverso il ritorno edenico e romantico della “hybris” del creatore/artista – la critica (ed il limite teoretico) dell’arte come professione delle società industrialmente avanzate.

            In Lalonde si salda la frattura tra artista e spettatore in una prospettiva di “partecipazione” all’evento estetico, non solo come dinamica di scambio (e su tale reciprocità l’artista imposta, via Lacan, gran parte del suo lavoro), ma come essenziale campo comune. Campo comune che, per esempio, nella pittura Rinascimentale, era la convenzione della prospettiva.

            Dietro l’angolo c’è anche Maciunas e la ripresa delle avanguardie dal ’58 in poi, quando Lalonde ricorda come Marilyn Ferguson abbia detto “ogni essere è un artista”. Ma è pure un chiarimento. Perché la prospettiva di Cerj non è mai quella della rivolta o del balbettio Dada di certo Fluxus, ma quella dell’analisi filosofica, la sua arte tende alla cosmogonia (l’estetica come teoria dello stile) e potrà anche fallire, se è vera l’asserzione freudiana della “non analizzabilità” della creazione (processo che renderebbe vano il precetto antico e terapeutico del “Gnotis se autòn” che pure è una delle istanze del fare arte), ma la frustrazione non produrrà né nevrosi (nel senso di un linguaggio non condiviso), né il gesto nichilista.

            Insomma, l’arte è sì di tutti, ma l’Everyman di Lalonde (il “Being” della citazione di Ferguson cui si staglia all’orizzonte un unico destino di infinita finitezza), è “homo philosophicus” cui niente è più lontano dell’ambiguo “L’arte è facile” di un Giuseppe Chiari. Per Lalonde l’arte è difficile perché è processo tra opposti. Ma soprattutto, “processo di conoscenza”.

            E quando Lalonde rivela che la pittura gli è apparsa come evangelica “Buona novella” si fa ulteriormente patente l’afflato gnoseologico (se non mistico) della sua ricerca. E soprattutto scopre una pratica della pittura che da anni si fa “testimonianza” nella necessità del “verbo”, che in Lalonde è colore e forma.          Forma finita e, sovente fatta di colori primari poiché l’unico approccio alla salvezza è sempre la griglia dell’archetipo. E della scienza.

            Anche in fase speculativa, Lalonde ha più volte palesato il fascino che esercitano su di lui Piero della Francesca e la pittura del Rinascimento: l’abbiamo detto è, innanzitutto, l’astrazione della prospettiva, in quanto astrazione, a sollecitarlo maggiormente. Nella pittura classica, le regole prospettiche (un arbitrio di oggettivazione rispetto alla teoria della soggettività della Gestalt), metterebbero in scena un’immagine che allude al movimento. In Lalonde non è tanto il gesto della pittura ad essere rivelato (in questo è più vicino a Mondrian che non a Pollock), ma il “gesto dell’intelligenza” come rapporto tra l’artista e il rappresentato che ha dalla sua il suo potere di rappresentare.

            Attraverso quelli che l’artista chiama “Scenario”, spazi in cui l’opera diventa un’esperienza progressiva e collettiva, quella a cui l’artista lavora è una “prospettiva infinita” in cui la messa in scena – enfatizzando, attraverso una pratica di matrice zen, l’eternità del tempo e l’infinità dello spazio – fornisce “pretesti” e “contesti” più che veri e propri testi. La sua è un’arte leggera, fatta più di silenzi che di presenza.

            Sulla pittura orientale Ales Erjavec, citando François Cheng, notava come il vuoto all’interno di un dipinto “non è una presenza inerte, ma è attraversato da respiri che uniscono il mondo visibile (lo spazio dipinto) con quello invisibile”.

            E’ noto come Lalonde sia artista multimediale, ma nella rivendicazione di una “pittura-pittura” (è spassoso quel passo di un suo scritto in cui la definizione della sua opera, sul calco della prosa un po’ sensazionalistica della critica coeva diventi “neo-astratta e contemporanea, post-moderna o attuale, post-neo-costruttivista o organico-neo-strutturalista (…) insomma, semplicemente pittura”…) non indica soltanto un campo mediatico di predilizione, ma un preciso ambito filosofico, la cui missione è quella di “comunicare una visione”, come recita un suo ampio ciclo di opere. Semanticamente ricca, la parola “vision” (in francese come in inglese) afferisce sia ai processi meccanici dell’occhio e della rielaborazione del cervello, sia all’apparizione ultraterrena. La visione come “oggetto” della relazione della Gestalt, ma anche come attore dell’evento. E, in Lalonde, il problema è proprio in questo dubbio: e se la visione artistica fosse il vero “soggetto”?

            Non è affatto un caso che una delle opere più concettuali e programmatiche di Lalonde sia proprio l’installazione fotografica “Seeing” in cui una stanza completamente buia accoglie una miriade di occhi alle pareti. Come dire? Se l’arte va sempre osservata, non dobbiamo mai dimenticare che la vera arte nasce dall’azione congiunta dello spettatore e dell’opera stessa. Ed allora, Lalonde ci regala proprio un’opera complessa, che va sì guardata, ma che, soprattutto, in un’ottica lacaniana “ci guarda”.

            L’installazione (di recente esposta al Castello Lupinari), è stata ampiamente studiata in un ciclo di incontri voluti dal professor Suzanne Leclair alla Concordia University di Montreal, la quale metteva subito in relazione l’interazione, in Lalonde, tra spazio e rappresentazione, trovando proprio nella dialettica tra vuoto e pieno, luce e buio, vedere ed essere visti, le ragioni più profonde della sua comunicazione artistica.

            Eppure, osservando le opere di Lalonde il dubbio resta: chi comunica veramente la Visione? L’artista? Lo spettatore? O l’opera stessa?

            E’ uno dei nodi fondamentali della teoria dell’arte contemporanea (e non solo) quello del soggetto, ampiamente affrontato da Freud e da Jacques Lacan e, prima di lui, da Merleau-Ponty per il quale – a differenza di Heidegger per cui è la poesia il linguaggio dell’essere – è la vista ad occupare una centralità ontologica. Ma la “logica dello sguardo” (Bryson) è quella che “vede la rappresentazione” non come tentativo mimetico, “ma in relazione alla sua verità interna” (Erjavec). E’ ancora Erjavec a ricordarci come Merleau-Ponty indichi nella pittura la via principale per raggiungere l’Essere. Ma la filosofia è aspirazione all’Essere, però anche consapevolezza del proprio limite.

            In ultima analisi è da qui, dalla prospettiva dell’orlo vertiginoso del limite dell’umano e dal suo indomito tentativo di trascendenza che la pittura astratta di Cerj Lalonde guarda il mondo e dentro se stesso. E così facendo “guarda” dentro noi tutti.

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* Antonina Zaru è italiana e svolge l’attività di curatrice e critica d’arte. Ha organizzato numerose esposizioni di artisti internazionali (Mirò, Manritte, Richard Serra, Nam June Paik, Stephen Cox) in diversi Musei nel mondo (New York, Washington, Tokyo, Basilea, Vienna, Madrid, Seoul, Roma, Milano, Firenze, Venezia e Napoli). Da molti anni segue l’attività di Nam June Paik, del quale ha curato importanti mostre (Kunstalle di Basilea, Kunsthaus di Zurigo, Statdrische Kunsthalle di Dusseldorf, Museum of the Twentieth Century in Vienna, Symposium international di Seoul, Palazzo delle esposizioni di Roma, Padiglione Tedesco presso la Biennale di Venezia). Scrive costantemente per riviste e cataloghi d’arte.

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